La libertà altro non è che la possibilità di migliorarci. Albert Camus.
Fino all’età di 18 anni non ho mai avuto un rapporto conflittuale con il mio aspetto fisico, contestualizzo: la mia cerchia di amiche di allora, perlopiù formata dalle mie compagne di liceo, dalle mie compagne di danza e dalle mie vicine di casa, avevano tutte quante un rapporto che voglio definire sereno e pacifico sia in ambito alimentare sia per quanto riguardava la loro fisicità. Non mi è mai balenato per la testa alcun tipo di paragone tra il mio corpo e il loro corpo, non mi sono mai sentita in soggezione, in difetto o meno di loro di fronte ad un menù al ristorante, o di fronte ad un specchio mentre sceglievano come vestirci per andare a ballare sabato sera. Per assurdo non ho mai messo in discussione il mio corpo nemmeno in nove anni di danza, dove posso garantirvi io abbia visto e sia stata circondata sempre da corpi molto più esili del mio.
Fino ad allora non ho mai identificato il mio valore esclusivamente nel mio corpo. Non sfuggivo ai complimenti, ma allo stesso tempo non mi ritenevo essere “tutta questa bellezza”. “Nella norma”, così mi definivo - e mi definisco tuttora.
Ricordo con tenerezza degli istanti in cui, parlando con le mie ex compagne di liceo, ci promettevamo che, in vista dell’estate, ci saremmo iscritte assieme in palestra o che di domenica mattina ci saremmo date appuntamento all’area verde per andare a correre: non è mai successo, o meglio io non ho mai preso parte a questa iniziativa.
Come ho detto fino a diciott’anni tutto è andato liscio. Perciò, cos’è che ha fatto scattare quella miccia nella mia mente, tale per cui ho iniziato a maturare l’idea e la convinzione che il mio aspetto fisico definisse il mio valore e di conseguenza quantificasse la misura di amore che io meritavo dagli altri?
In quegli anni ho vissuto le mie prime due grandi relazioni, la prima durata quasi un anno e la seconda quasi due anni. Tra le due sono intercorsi solo pochi mesi.
Cosa accomuna queste due relazioni? La fine, ovvero il fatto che in entrambi i casi io sia stata tradita dal partner.
Ora quello che voglio raccontarvi non è la fine di queste due relazioni, né tantomeno il mio obiettivo è quello di affibbiare la colpa a questi due ragazzi di ciò che mi è accaduto da lì agli anni a venire.
Quello che io ho capito è che queste due situazioni sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso, di un malessere latente che io covavo dentro di me, fin da quando ero bambina, ma della mia infanzia ne parleremo un’altra volta, promesso.
Sia a 17 che a 19 anni ho vissuto le mie relazioni in maniera del tutto totalizzante, credendo che l’altro fosse la mia intera vita e che senza quella persona al mio fianco il mio valore non esistesse, e di conseguenza io.
Questo mio atteggiamento, del tutto nocivo, mi ha portato a sviluppare una dipendenza affettiva da queste persone e nell’istante in cui questo legame si è rotto, per l’entrata in scena di una terza persona, in entrambi i casi ho agito nello stesso modo: addossandomi l’intera colpa di quel tradimento, perché se il partner aveva consapevolmente deciso di andare con un’altra ragazza era perché evidentemente io non ero abbastanza. Abbastanza performante, abbastanza attraente, abbastanza accondiscendente, abbastanza intelligente, abbastanza loquace, abbastanza sveglia.
Quando dai la possibilità alla tua mente di prendere le redini della tua quotidianità, le conferisci un potere che difficilmente è retraibile.
Ricordo di aver fatto per una serie di settimane e mesi questo gioco contorto all’interno della mia mente: dopo essermi addossata quel carico, mi domandavo quali parti di me - caratteriali e fisiche - avrei dovuto necessariamente cambiare per far sì che quella situazione non accadesse più in futuro, come se il tradimento del tuo partner dipendesse a priori da una tua mancanza o per giunta da una tua caratteristica.
Vi descrivo in breve cos’è accaduto: in primo luogo ho iniziato a essere una Chiara che non ero mai stata fino ad allora cambiando drasticamente compagnia di amici, frequentando luoghi contesti che non mi erano mai appartenuti, ma soprattutto ricordo che ogni mattina la mia mente mi dava quest’input: “riempiti la giornata, esci di casa, fai cose, non ritagliarti alcuni istante per stare in compagnia dei tuoi pensieri altrimenti è finita”.
E così è stato per una serie di mesi finché, per forza di cose, nel marzo del 2020 essendo costretta a non poter più uscire ho dovuto fare i conti con la mia mente, che fino ad allora aveva somatizzato una serie di traumi e dolori a lei sconosciti.
Non so dirvi di preciso il giorno o l’istante in cui ho iniziato a traslare dal mio carattere al mio corpo questo meccanismo di auto sabotaggio. Ricordo semplicemente che da un giorno all’altro è come se io mi fossi svegliata senza più la conoscenza di me stessa e avessi dovuto ripartire da zero, il tutto senza buon senso o logica.
In quei mesi mi sentivo estremamente sola, non compresa e tutto questo perché non mi ero mai data la possibilità e il tempo necessario nell’ultimo anno e mezzo per confrontarmi con me stessa, per metabolizzare quei due tradimenti e una serie di altre rotture e perdite che poi si erano susseguite nei mesi a venire.
È stato come un forte schiaffo in faccia, continuo, sempre più irruente, giorno dopo giorno. L’unico istante in cui riuscivo a dare uno stop a quei pensieri era il momento in cui mi obbligavo - e sottolineo obbligavo perché in quel momento il piacere non sapevo assolutamente cosa fosse - a fare qualsiasi genere di attività fisica. Era come se la fatica annebbiasse per qualche ora la mia mente.
Sono iniziati così gli allenamenti in casa quotidiani, a volte anche 2, 3, 4 volte al giorno, ma soprattutto è iniziata la voglia di sparire sempre di più. Questo mio desiderio derivava dalla mia incapacità comunicativa di questo mio stato d’animo e di conseguenza non sentendomi compresa, non volevo essere nemmeno più vista.
Come potevano però gli altri, la mia famiglia, le mie amiche capire cosa io stessi provando se io in primis non mi confidavo con loro?
Non volevo essere un peso per chi mi circondava, io che io mi sentivo già un macigno per me stessa.
Parlarne ad alta voce significava prendere consapevolezza di quel dolore e, soprattutto, rendermi conto che sotto sotto il problema non ero mai stata io. Io ho quella presa di coscienza, però, non ero ancora pronta e forse continuare a crogiolarmi in quello stato mi faceva comodo, non perché io cercassi la compassione dagli altri, ma perché auto sabotarmi era la soluzione più facile.
Non voglio entrare qui nei dettagli di come sia stata la mia alimentazione per i mesi a venire, ma vi dirò soltanto che nel giro di due massimo tre mesi ho perso circa 20 kg.
Se mi sono rialzata in quell’istante lo devo solamente alla mia famiglia, a mia madre e a mio padre che, seppur in una maniera del tutto irruente e anche brusca, mi hanno fatto aprire gli occhi, facendomi capire che gli anni più belli della mia vita, gli anni in cui sarei dovuta essere una ventenne spensierata, li stavo buttando via.
Chiudo questa introduzione descrivendovi questa immagine, di cui vi allego foto: era settembre e da poco avevo ricominciato a rimangiare del cibo che non fosse liquido, del cibo che non fossero solo delle verdure scondite e mia mamma aveva deciso di portarmi ad un lago per passare una giornata diversa, per farmi uscire di casa e farmi capire che là fuori il mondo continuava ad andare avanti, la vita proseguiva nel tempo non si fermava.
Ricordo che una volta arrivate in cima , dopo un percorso di circa 20 minuti in piano, il panorama mi ha dato un senso di pienezza e di vuoto al contempo, tanto da farmi capire che la mia presenza su questo mondo dipendeva solo ed esclusivamente da me.
In quell’istante, distesa su quel prato, mi sono ripromessa, e ho ripromesso a mia mamma, che avrei messo tutta me stessa per rimettermi in piedi non solo fisicamente, ma anche mentalmente.
Grazie di cuore per essere arrivate fino a qui, per aver letto questo incipit. Il mio obiettivo è quello di raccontarvi a piccole dosi degli stralci della mia quotidianità, perché se c’è una cosa che ho capito negli ultimi anni, condividendo la mia storia, è che purtroppo siamo tantissime ad aver sofferto o a soffrire degli stessi dolori, ma la forza e la potenza della condivisione, a parer mio, rimane un’arma fortissima.
Per chiunque volesse raccontarmi la propria storia, o volesse semplicemente confidarsi, vi lascio il mio profilo Instagram: chiara_silvestro
Ci sentiamo prestissimo.
Un abbraccio, vostra Chiara.
Ti seguirò sempre, ovunque ✨